Giosuè 24, 14-16                                              Prof. Dr. Dr. h.c. mult. Christoph Markschies

La festa di consacrazione della chiesa, cara Comunità, a prima vista fa sembrare che l’oggetto della nostra festa sia un edificio. Nella festa di consacrazione che celebriamo oggi, a prima vista sembra che facciamo gli auguri a questo edificio qui, in cui stiamo tenendo il culto. Si è conservata bene, la Christuskirche, in centodue anni. L’oro dei mosaici è radioso; il marmo splende; l’organo risuona possente. Auguri di cuore. Non c’è indizio di problemi dovuti alla vecchiaia; le campane rintoccano, ad multos annos.

 

Con un tale incipit, cara Comunità riunita per la festa, è già chiaro a tutti questo: il giubileo di quest’edificio è solo l’occasione. Ma non è il culto per la consacrazione di questa chiesa, avvenuta centodue anni fa, il motivo della nostra festa. Ciò che festeggiamo davvero è la comunità che ha eretto quest’edificio, che l’ha decorato, che l’ha protetto e curato, che ne mantiene il decoro e che lo usa domenica dopo domenica e in molti giorni della settimana. Festeggiamo la comunità che, da oltre cento anni, tiene il culto in quest’edificio e con la comunità festeggiamo il suo edificio. Con la comunità riunita qui, oggi, festeggiamo la tenace perseveranza di coloro che, nel 1922, nel cuore di una grave crisi finanziaria, approntarono e consacrarono questa chiesa; dopo che, insieme con tutto Palazzo Caffarelli, era stata confiscata ed infine espropriata anche la cappella dell’Ambasciata tedesca sul Campidoglio, usata fin dal 1823. Un sagace storico dell’arte, tedesco di Roma, ha paragonato questa cacciata alla caduta dalla Rupe Tarpea. Probabilmente, così si sarà sentita la comunità di allora e quindi avrà provato gratitudine quando, in un periodo di doppia depressione, per la magnifica Christuskirche, qui, in via Toscana, furono impiegati oro e marmo e installati organo e campane. Un nuovo inizio, dopo la brusca caduta dal Campidoglio; nuovo splendore, dopo la vergogna della sconfitta nella Grande Guerra; un edificio fiero, dopo tanta umiliazione in città e nel Paese. Nuovo orientamento di un’intera comunità, con l’aiuto di un edificio. È di questo che ci ricordiamo, oggi, grati e anche un po’ fieri. Perché, dopo la grande catastrofe del 1918, nel secolo scorso venne una catastrofe ancora più grande e anche attualmente i tempi non sono propriamente sicuri, tranquilli e davvero pacifici. Una casa può dare rifugio, in tempi difficili; una casa può infondere forza, in condizioni incerte.

 

Ma, come detto, festeggiando l’edificio si festeggia anzitutto la comunità, cara comunità riunita per la festa, e perciò è consono che anche il nostro testo per la predicazione presenti l’edificio solo in senso lato. Nel testo della domenica odierna non si parla per nulla di un edificio di pietra, marmo e mosaici. Viene invece descritta un’assemblea in un campo libero, su un prato, sgombro e non costruito come lo fu per vent’anni il lotto edificabile di questa chiesa, piccola area di via Toscana, non lontana da via Veneto e dalle Mura Aureliane, acquisito dalla comunità nel 1899, e fino ad allora parte non costruita degli Orti Ludovisi. Quel che è descritto nel testo è un’assemblea delle tribù d’Israele, riunitesi tutte sotto la guida di Giosuè a Sichem, al di sotto di Ebal e Garizim, davanti alle porte dell’attuale città di Nablus, nella Westbank. Nella nostra Bibbia di Lutero, questo raduno porta il bellissimo titolo di “Assemblea a Sichem”: m’immagino sempre l’assemblea di un paese svizzero, in cui tutti, uomini donne e bambini, sono riuniti su un prato, suddivisi per famiglie e tribù, con Giosuè al centro. Il nostro testo di predicazione è preceduto, come è d’uopo per un tale raduno, da un lungo discorso in cui viene ricapitolata la storia del popolo d’Israele: da Abraamo fino agli altri patriarchi Isacco, Giacobbe ed Esaù. Giosuè, nel suo lungo discorso all’assemblea, ricapitola come il popolo d’Israele arrivasse in Egitto e poi, sotto Mosè, attraversando il Mar Rosso andasse nel deserto e da lì, attraversato il Giordano, giungesse nella Terra Promessa. Dal mare, dal RedSea, al river, al fiume Giordano: tra coloro che sbraitano slogan, sono pochi, cara Comunità, quelli che conoscono davvero il Vicino Oriente e che sappiano ricapitolare la storia del popolo d’Israele, da Abraamo a Giosuè, con la concisione e la precisione di Giosuè all’assemblea di Sichem; discorso che, forme, alcuni di noi hanno imparato durante le lezioni di religione o del corso di confermazione.

Il vertiginoso discorso storico di Giosuè, nel suo gran discorso all’assemblea di Sichem, culmina in una frase che io, cara Comunità, trovo grandiosa, esattamente evangelica, che meriterebbe di costituire l’incipit del nostro testo di predicazione; invece, per qualche motivo, la commissione competente, anni fa, decise che fosse quello seguente. La frase grandiosa di Giosuè, che manca nel nostro testo, ma che vi appartiene, è frase con cui Dio stesso parla al suo popolo e con cui riassume l’intera storia dell’uscita dall’Egitto e dell’ingresso nella Terra Promessa. Dio parla per bocca di Giosuè e dice: E vi (intesi gli Israeliti) diedi una terra che non avevate lavorata, delle città che non avevate costruite; voi abitate in esse e mangiate il frutto delle vigne e degli uliveti che non avete piantati”. Una frase precisamente evangelica; frase che anche Gesù avrebbe potuto pronunciare; e anche Lutero, Calvino e Bonhoeffer avrebbero potuto farlo, perché è grazia, cara Comunità, pura grazia che possiamo vivere in un Paese in cui non abbiamo costruito; che possiamo abitare in case di cui non abbiamo eretto i muri con le nostre mani; e che possiamo mangiare i frutti di vigne e oliveti che non abbiamo piantato.; che mangiamo dei prodotti di campi e reti da pesca che non abbiamo curato, anzi, peggio, in cui buttiamo la nostra immondizia e nelle cui acque, ciò nonostante, nuotano ancora allegramente i pesci e noi mangiamo. Nel 1922, qui fu consacrata una chiesa perché quest’edificio, a differenza di Palazzo Caffarelli, venne restituito; anche questo per pura grazia, dono immeritatissimo dopo un’amara sconfitta. Quest’edificio sacro simboleggia quanta grazia riceviamo nella vita, del tutto immeritatamente, senza aver lavorato, senza il nostro apporto, per puro dono, per pura grazia.

 

Il nostro testo di predicazione, che giungo finalmente a trattare, cara Comunità, formula una domanda, diretta a noi, riguardante il modo in cui noi vogliamo reagire ai grandi doni elargiti per grazia: con gratitudine o con indifferenza? Con gioia profonda o come se fossimo imbronciati per non essercelo procurato da noi? Chi ha ricevuto qualcosa in dono, deve decidere, può decidere, dovrebbe decidere: come reagire, quando davanti alla porta c’è una grande cesta intrecciata, colorata e adorna di fiocco rosso, dono immeritato? Leggo dall’Antico Testamento, dal libro di Giosuè, il discorso di Giosuè all’assemblea di Sichem, che si trova nel capitolo ventiquattro, versetti da 14 a 16:

 

14 Dunque temete il SIGNORE e servitelo con integrità e fedeltà; togliete via gli dèi ai quali i vostri padri servirono di là dal fiume e in Egitto, e servite il SIGNORE. 15 E se vi sembra sbagliato servire il SIGNORE, scegliete oggi chi volete servire: o gli dèi che i vostri padri servirono di là dal fiume o gli dèi degli Amorei, nel paese dei quali abitate; quanto a me e alla casa mia, serviremo il SIGNORE». 16 Allora il popolo rispose e disse: «Lungi da noi l’abbandonare il SIGNORE per servire altri dèi!».

 

Fin dai tempi dell’asilo, cara Comunità, sappiamo questo, per esperienza personale: per i doni, anzi proprio per i doni grandi, immeritati, si può essere grati oppure si può essere profondissimamente ingrati. Le persone imbronciate, ingrate (e ne conosciamo tutti) non hanno sulle labbra nessun “grazie” gentile, non scrivono a mano biglietti di ringraziamento cortesi, non ricambiano con una cortesia e, semplicemente, ignorano chi ha fatto loro un dono. Nel nostro testo di predicazione, tratto dal discorso di Giosuè all’assemblea di Sichem, non si tratta però di ingratitudine spicciola, del “grazie” dimenticato per un regalo di compleanno o di Natale particolarmente creativo. No, cara Comunità, nel nostro testo si tratta dell‘ingratitudine peggiore di cui ci si possa rendere colpevoli, come esseri umani. Si tratta dell’ingratitudine verso Dio. Si tratta del fatto che le persone possono semplicemente dimenticare il loro creatore, disimparando ad essergli grati per tutti i buoni doni immeritati che riceviamo ogni giorno di nuovo e per tutta la giornata: vita, salute, cibo, sonno, riposo, vacanze a Roma: “perché possiamo ancora usare i nostri sensi e muovere mani e piedi, lingua e labbra, dobbiamo ringraziare la sua benedizione. Lodate il Signore!”, dice uno degli inni più famosi di Paul Gerhardt, che vuole spingerci a non dimenticare la gratitudine per i doni di grazia di Dio e a ringraziarne subito il buon Dio.

 

L’oblio di Dio, cara Comunità, prende forme diverse in tempi diversi. Dal nostro testo di predicazione e da altri passi dell’Antico Testamento sappiamo che si può dimenticare il Dio vivente di Abraamo, Isacco e Giacobbe, il Dio che si rivelò sul Sinai e che si può passare ai molti dei del mondo antico. Si possono scegliere gli dèi che i vostri padri servirono di là dal fiume o gli dèi degli Amorei, nel paese dei quali abitate”, è detto nel discorso di Giosuè, nostro testo di predicazione. Ma la Bibbia riferisce anche che le persone lasciare il Dio vivente per Astarte, per l’olimpico Zeus, padre degli dei greci. Se vedo bene, cara Comunità, oggi questo rischio lo corrono in pochi. Ad ogni modo, non conosco adoratori di Baal né veneratrici di Astarte che sacrifichino a Zeus e, per quanto mi risulta, non vedo tori né a Roma né a Berlino. Martin Lutero, nel suo commento dei Dieci Comandamenti, contenuto del Grande Catechismo del 1529, ha ricordato che non devono esserci immagini di idoli da cui possiamo diventare dipendenti, per puro oblio di Dio. Lutero scrive: “Dico che ciò cui appendi e affidi il tuo cuore è in effetti il tuo Dio.” Per pura ingratitudine verso i doni di grazia di Dio si può dimenticare Dio e finire col diventare dipendenti dagli idoli: fama e denaro, potere e sicurezza, bellezza e splendore: gli idoli, cara Comunità, sono un’infinità e di questi idoli nessuno mantiene quel che sembra promettere. La prossima crisi finanziaria verrà certamente; ogni bellezza e splendore appassirà; potere e sicurezza finiranno in briciole nelle guerre e crisi del nostro tempo.

 

Giosuè, cara Comunità, col suo discorso vuole incitare a decidere, per pura gratitudine, in favore del vero Dio e a non dipendere dai molti idoli e semidei del nostro tempo a causa dell’oblio di Dio. E il suo discorso ha un successo clamoroso. Giosuè conclude: «Quanto a me e alla casa mia, serviremo il SIGNORE». E allora il popolo, parlando come con una sola bocca, replica: «Lungi da noi l’abbandonare il SIGNORE per servire altri dèi!». La festa di consacrazione della chiesa, cara Comunità, è l’occasione per ricordarsi di tali impegni assunti volontariamente. Io, ogni singolo uomo, ogni singola donna, ma anche noi tutti vogliamo servire il Signore e non qualcuno degli altri dèi di questo mondo. Ma io, ma noi e quest’intera casa. Qui, in questa chiesa si continuerà, come viene fatto da centodue anni, a cantare, pregare e predicare contro l’oblio di Dio, cantando e suonando, lieti e grati, al nostro Dio. Ringraziandolo per i suoi doni di grazia con cuore, bocca e mente. Un’isola di gratitudine in un mondo pieno d’ingratitudine. Un’isola su cui Dio viene ricordato in tempi di crasso oblio di Dio. È lui che noi vogliamo, questa casa vuole servire anche per molti altri anni, decenni e, se Dio vuole, secoli.

Amen.Giosuè 24, 14-16                                              Prof. Dr. Dr. h.c. mult. Christoph Markschies

La festa di consacrazione della chiesa, cara Comunità, a prima vista fa sembrare che l’oggetto della nostra festa sia un edificio. Nella festa di consacrazione che celebriamo oggi, a prima vista sembra che facciamo gli auguri a questo edificio qui, in cui stiamo tenendo il culto. Si è conservata bene, la Christuskirche, in centodue anni. L’oro dei mosaici è radioso; il marmo splende; l’organo risuona possente. Auguri di cuore. Non c’è indizio di problemi dovuti alla vecchiaia; le campane rintoccano, ad multos annos.

 

Con un tale incipit, cara Comunità riunita per la festa, è già chiaro a tutti questo: il giubileo di quest’edificio è solo l’occasione. Ma non è il culto per la consacrazione di questa chiesa, avvenuta centodue anni fa, il motivo della nostra festa. Ciò che festeggiamo davvero è la comunità che ha eretto quest’edificio, che l’ha decorato, che l’ha protetto e curato, che ne mantiene il decoro e che lo usa domenica dopo domenica e in molti giorni della settimana. Festeggiamo la comunità che, da oltre cento anni, tiene il culto in quest’edificio e con la comunità festeggiamo il suo edificio. Con la comunità riunita qui, oggi, festeggiamo la tenace perseveranza di coloro che, nel 1922, nel cuore di una grave crisi finanziaria, approntarono e consacrarono questa chiesa; dopo che, insieme con tutto Palazzo Caffarelli, era stata confiscata ed infine espropriata anche la cappella dell’Ambasciata tedesca sul Campidoglio, usata fin dal 1823. Un sagace storico dell’arte, tedesco di Roma, ha paragonato questa cacciata alla caduta dalla Rupe Tarpea. Probabilmente, così si sarà sentita la comunità di allora e quindi avrà provato gratitudine quando, in un periodo di doppia depressione, per la magnifica Christuskirche, qui, in via Toscana, furono impiegati oro e marmo e installati organo e campane. Un nuovo inizio, dopo la brusca caduta dal Campidoglio; nuovo splendore, dopo la vergogna della sconfitta nella Grande Guerra; un edificio fiero, dopo tanta umiliazione in città e nel Paese. Nuovo orientamento di un’intera comunità, con l’aiuto di un edificio. È di questo che ci ricordiamo, oggi, grati e anche un po’ fieri. Perché, dopo la grande catastrofe del 1918, nel secolo scorso venne una catastrofe ancora più grande e anche attualmente i tempi non sono propriamente sicuri, tranquilli e davvero pacifici. Una casa può dare rifugio, in tempi difficili; una casa può infondere forza, in condizioni incerte.

 

Ma, come detto, festeggiando l’edificio si festeggia anzitutto la comunità, cara comunità riunita per la festa, e perciò è consono che anche il nostro testo per la predicazione presenti l’edificio solo in senso lato. Nel testo della domenica odierna non si parla per nulla di un edificio di pietra, marmo e mosaici. Viene invece descritta un’assemblea in un campo libero, su un prato, sgombro e non costruito come lo fu per vent’anni il lotto edificabile di questa chiesa, piccola area di via Toscana, non lontana da via Veneto e dalle Mura Aureliane, acquisito dalla comunità nel 1899, e fino ad allora parte non costruita degli Orti Ludovisi. Quel che è descritto nel testo è un’assemblea delle tribù d’Israele, riunitesi tutte sotto la guida di Giosuè a Sichem, al di sotto di Ebal e Garizim, davanti alle porte dell’attuale città di Nablus, nella Westbank. Nella nostra Bibbia di Lutero, questo raduno porta il bellissimo titolo di “Assemblea a Sichem”: m’immagino sempre l’assemblea di un paese svizzero, in cui tutti, uomini donne e bambini, sono riuniti su un prato, suddivisi per famiglie e tribù, con Giosuè al centro. Il nostro testo di predicazione è preceduto, come è d’uopo per un tale raduno, da un lungo discorso in cui viene ricapitolata la storia del popolo d’Israele: da Abraamo fino agli altri patriarchi Isacco, Giacobbe ed Esaù. Giosuè, nel suo lungo discorso all’assemblea, ricapitola come il popolo d’Israele arrivasse in Egitto e poi, sotto Mosè, attraversando il Mar Rosso andasse nel deserto e da lì, attraversato il Giordano, giungesse nella Terra Promessa. Dal mare, dal RedSea, al river, al fiume Giordano: tra coloro che sbraitano slogan, sono pochi, cara Comunità, quelli che conoscono davvero il Vicino Oriente e che sappiano ricapitolare la storia del popolo d’Israele, da Abraamo a Giosuè, con la concisione e la precisione di Giosuè all’assemblea di Sichem; discorso che, forme, alcuni di noi hanno imparato durante le lezioni di religione o del corso di confermazione.

Il vertiginoso discorso storico di Giosuè, nel suo gran discorso all’assemblea di Sichem, culmina in una frase che io, cara Comunità, trovo grandiosa, esattamente evangelica, che meriterebbe di costituire l’incipit del nostro testo di predicazione; invece, per qualche motivo, la commissione competente, anni fa, decise che fosse quello seguente. La frase grandiosa di Giosuè, che manca nel nostro testo, ma che vi appartiene, è frase con cui Dio stesso parla al suo popolo e con cui riassume l’intera storia dell’uscita dall’Egitto e dell’ingresso nella Terra Promessa. Dio parla per bocca di Giosuè e dice: E vi (intesi gli Israeliti) diedi una terra che non avevate lavorata, delle città che non avevate costruite; voi abitate in esse e mangiate il frutto delle vigne e degli uliveti che non avete piantati”. Una frase precisamente evangelica; frase che anche Gesù avrebbe potuto pronunciare; e anche Lutero, Calvino e Bonhoeffer avrebbero potuto farlo, perché è grazia, cara Comunità, pura grazia che possiamo vivere in un Paese in cui non abbiamo costruito; che possiamo abitare in case di cui non abbiamo eretto i muri con le nostre mani; e che possiamo mangiare i frutti di vigne e oliveti che non abbiamo piantato.; che mangiamo dei prodotti di campi e reti da pesca che non abbiamo curato, anzi, peggio, in cui buttiamo la nostra immondizia e nelle cui acque, ciò nonostante, nuotano ancora allegramente i pesci e noi mangiamo. Nel 1922, qui fu consacrata una chiesa perché quest’edificio, a differenza di Palazzo Caffarelli, venne restituito; anche questo per pura grazia, dono immeritatissimo dopo un’amara sconfitta. Quest’edificio sacro simboleggia quanta grazia riceviamo nella vita, del tutto immeritatamente, senza aver lavorato, senza il nostro apporto, per puro dono, per pura grazia.

 

Il nostro testo di predicazione, che giungo finalmente a trattare, cara Comunità, formula una domanda, diretta a noi, riguardante il modo in cui noi vogliamo reagire ai grandi doni elargiti per grazia: con gratitudine o con indifferenza? Con gioia profonda o come se fossimo imbronciati per non essercelo procurato da noi? Chi ha ricevuto qualcosa in dono, deve decidere, può decidere, dovrebbe decidere: come reagire, quando davanti alla porta c’è una grande cesta intrecciata, colorata e adorna di fiocco rosso, dono immeritato? Leggo dall’Antico Testamento, dal libro di Giosuè, il discorso di Giosuè all’assemblea di Sichem, che si trova nel capitolo ventiquattro, versetti da 14 a 16:

 

14 Dunque temete il SIGNORE e servitelo con integrità e fedeltà; togliete via gli dèi ai quali i vostri padri servirono di là dal fiume e in Egitto, e servite il SIGNORE. 15 E se vi sembra sbagliato servire il SIGNORE, scegliete oggi chi volete servire: o gli dèi che i vostri padri servirono di là dal fiume o gli dèi degli Amorei, nel paese dei quali abitate; quanto a me e alla casa mia, serviremo il SIGNORE». 16 Allora il popolo rispose e disse: «Lungi da noi l’abbandonare il SIGNORE per servire altri dèi!».

 

Fin dai tempi dell’asilo, cara Comunità, sappiamo questo, per esperienza personale: per i doni, anzi proprio per i doni grandi, immeritati, si può essere grati oppure si può essere profondissimamente ingrati. Le persone imbronciate, ingrate (e ne conosciamo tutti) non hanno sulle labbra nessun “grazie” gentile, non scrivono a mano biglietti di ringraziamento cortesi, non ricambiano con una cortesia e, semplicemente, ignorano chi ha fatto loro un dono. Nel nostro testo di predicazione, tratto dal discorso di Giosuè all’assemblea di Sichem, non si tratta però di ingratitudine spicciola, del “grazie” dimenticato per un regalo di compleanno o di Natale particolarmente creativo. No, cara Comunità, nel nostro testo si tratta dell‘ingratitudine peggiore di cui ci si possa rendere colpevoli, come esseri umani. Si tratta dell’ingratitudine verso Dio. Si tratta del fatto che le persone possono semplicemente dimenticare il loro creatore, disimparando ad essergli grati per tutti i buoni doni immeritati che riceviamo ogni giorno di nuovo e per tutta la giornata: vita, salute, cibo, sonno, riposo, vacanze a Roma: “perché possiamo ancora usare i nostri sensi e muovere mani e piedi, lingua e labbra, dobbiamo ringraziare la sua benedizione. Lodate il Signore!”, dice uno degli inni più famosi di Paul Gerhardt, che vuole spingerci a non dimenticare la gratitudine per i doni di grazia di Dio e a ringraziarne subito il buon Dio.

 

L’oblio di Dio, cara Comunità, prende forme diverse in tempi diversi. Dal nostro testo di predicazione e da altri passi dell’Antico Testamento sappiamo che si può dimenticare il Dio vivente di Abraamo, Isacco e Giacobbe, il Dio che si rivelò sul Sinai e che si può passare ai molti dei del mondo antico. Si possono scegliere gli dèi che i vostri padri servirono di là dal fiume o gli dèi degli Amorei, nel paese dei quali abitate”, è detto nel discorso di Giosuè, nostro testo di predicazione. Ma la Bibbia riferisce anche che le persone lasciare il Dio vivente per Astarte, per l’olimpico Zeus, padre degli dei greci. Se vedo bene, cara Comunità, oggi questo rischio lo corrono in pochi. Ad ogni modo, non conosco adoratori di Baal né veneratrici di Astarte che sacrifichino a Zeus e, per quanto mi risulta, non vedo tori né a Roma né a Berlino. Martin Lutero, nel suo commento dei Dieci Comandamenti, contenuto del Grande Catechismo del 1529, ha ricordato che non devono esserci immagini di idoli da cui possiamo diventare dipendenti, per puro oblio di Dio. Lutero scrive: “Dico che ciò cui appendi e affidi il tuo cuore è in effetti il tuo Dio.” Per pura ingratitudine verso i doni di grazia di Dio si può dimenticare Dio e finire col diventare dipendenti dagli idoli: fama e denaro, potere e sicurezza, bellezza e splendore: gli idoli, cara Comunità, sono un’infinità e di questi idoli nessuno mantiene quel che sembra promettere. La prossima crisi finanziaria verrà certamente; ogni bellezza e splendore appassirà; potere e sicurezza finiranno in briciole nelle guerre e crisi del nostro tempo.

 

Giosuè, cara Comunità, col suo discorso vuole incitare a decidere, per pura gratitudine, in favore del vero Dio e a non dipendere dai molti idoli e semidei del nostro tempo a causa dell’oblio di Dio. E il suo discorso ha un successo clamoroso. Giosuè conclude: «Quanto a me e alla casa mia, serviremo il SIGNORE». E allora il popolo, parlando come con una sola bocca, replica: «Lungi da noi l’abbandonare il SIGNORE per servire altri dèi!». La festa di consacrazione della chiesa, cara Comunità, è l’occasione per ricordarsi di tali impegni assunti volontariamente. Io, ogni singolo uomo, ogni singola donna, ma anche noi tutti vogliamo servire il Signore e non qualcuno degli altri dèi di questo mondo. Ma io, ma noi e quest’intera casa. Qui, in questa chiesa si continuerà, come viene fatto da centodue anni, a cantare, pregare e predicare contro l’oblio di Dio, cantando e suonando, lieti e grati, al nostro Dio. Ringraziandolo per i suoi doni di grazia con cuore, bocca e mente. Un’isola di gratitudine in un mondo pieno d’ingratitudine. Un’isola su cui Dio viene ricordato in tempi di crasso oblio di Dio. È lui che noi vogliamo, questa casa vuole servire anche per molti altri anni, decenni e, se Dio vuole, secoli.

Amen.

Festa della Chiesa – Prof. Markschies