Deutoronomio 6
4 Ascolta, Israele: il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE.
5 Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. 6 Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; 7 li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8 Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi 9 e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città.
“God first“ è il titolo di un libro del teologo evangelico Ingolf U. Dalferth, pubblicato nel 2018 dopo il 500° anniversario della Riforma. Come dice il sottotitolo, tratta della “rivoluzione della Riforma riguardante il pensiero cristiano”. Di fatto, la Riforma non fu niente di meno di una “rivoluzione spirituale” (Dalferth), che recò con sé non solo rivolgimenti formidabili sul piano ecclesiale, sociale, politico e culturale, ma che fondò, soprattutto, una concezione di Dio radicalmente nuova. Questo, in Lutero, è proprio al centro della sua scoperta come riformatore.
“God first”: si può intendere anche come rifiuto degli idoli dei nostri giorni, che si tratti di “America first”, “Österreich first” o dell’assolutizzazione dei valori umani. Ciò cui attacchi il tuo cuore, dice Lutero, è il tuo Dio. E quindi esiste una varietà di dei vecchi e nuovi, la cui adorazione è in contrasto col primo comandamento e col nostro testo di oggi, lo Shemà Israel.
L’aspetto radicalmente nuovo, nella teologia di Lutero, non era una risposta migliore, precisa alla domanda che lo occupò in convento: “Come posso ottenere che Dio mi consideri con grazia?”. Invece, al Riformatore di Wittenberg riuscì di comprendere che questa domanda era mal posta e che conduceva necessariamente fuori strada, perché, nella sua lotta per ottenere il riconoscimento da parte di Dio, è una specie di autoreferenzialità peccaminosa, che fallisce alla croce di Cristo e viene da essa giudicata.
Secondo l’istruzione rabbinica, ogni ebreo deve recitare lo Shemà la mattina e la sera. Ogni giorno, questa preghiera ricorda l’unica consolazione d’Israele in vita e in morte. Narra una leggenda che il patriarca Giacobbe, nel giorno della sua morte, volle dire ai figli la meta delle vie di Dio. Ma, all’improvviso, ebbe paura che i figli potessero diventare infedeli al Dio d’Israele e la voce gli mancò. Allora essi esclamarono: “Ascolta, Israele…!” E Giacobbe, che si chiamava anche Israele, rispose con una benedizione.
Nel Piccolo Catechismo, Lutero ha riassunto il senso del primo comandamento, e quindi anche dello Shemà, in modo pregnante e fino ad oggi insuperato: “Dobbiamo temere, amare Dio e confidare in lui.” Da ciò Lutero era stato molto lontano, come scrive guardando agli anni trascorsi in convento. Nella prefazione al primo volume dell’edizione dei suoi scritti in latino, nel 1545, scrive: “Ma io, che pure vissi in modo irreprensibile da monaco, davanti a Dio mi sentivo, in quanto peccatore, con la coscienza molto inquieta e non potevo confidare di essere riconciliato mediante le mie opere di soddisfazione; non amavo Dio, anzi, odiavo il Dio giusto che punisce i peccatori e, in silenzio, m’indignavo contro Dio e se pure non bestemmiavo, mormoravo enormemente dentro di me e dicevo: come se non bastasse che i miseri peccatori, perduti per sempre a causa del peccato originale, oppressi da ogni genere di sventura e dalla legge dei dieci comandamenti, Dio deve aggiungere ora, col Vangelo, dolore a dolore e gravarci con la sua giustizia e ira! Così mi infuriavo, nella mia coscienza agitata e sconvolta.”
Solo quando gli si illuminò il significato vero delle parole di Paolo in Romani 1, 17, che il giusto vive per sola fede, come pure si ritrova nel profeta Abacuc, nell’Antico Testamento (Ab 2, 4), Lutero trovò pace e redenzione, cui aveva anelato tanto a lungo. Adesso, riconobbe Dio non come colui che ricerca la giustizia, ma come colui che rende giusto il peccatore mediante la fede.
In questo momento, disse Lutero, la Bibbia non solo gli si mostrò con un volto del tutto differente, ma così fu per Dio stesso. Riconobbe il volto del Padre misericordioso, i cui tratti appaiono nel sembiante del Cristo crocifisso. Per Lutero, fu come se fosse rapito e portato dritto in paradiso. Ma restò con i piedi a terra, certo che il Dio di grazia e creatore del mondo è presente in mezzo a questo mondo terreno.
Per quanto tutto ciò possa apparire bello, Lutero può risultarci lontano ed estraneo, con le sue domande esistenziali. Alcuni decenni fa, ancora si dibatteva se la questione dell’esistenza di Dio, in specie di fronte al male, alle guerre mondiali e alla Shoà, non fosse molto più radicale della questione relativa al Dio di grazie. L’ateismo di protesta del XX secolo non turba più le persone da molto tempo. In larghe parti d’Europa, si diffonde indifferenza verso la questione di Dio e anche verso ogni forma di religione; atteggiamento che è definito indifferentismo. Molti nostri contemporanei non si pongono più la questione di Dio. Non manca loro nulla, se manca Dio. Non hanno solo dimenticato Dio, ma hanno dimenticato ciò che, secondo la visione di chi continua a credere in Dio, hanno dimenticato. Questo, comunque, risulta dalla sesta indagine sui membri di chiesa, pubblicata due anni fa in Germania.
E quindi è comprensibile la richiesta di riportare la questione di Dio, in modo nuovo, al centro dell’attività di annuncio da parte della Chiesa. Essa è buona e giusta se, anche all’interno della Chiesa, si osserva la tendenza a moralizzare il Vangelo della libera grazia di Dio e a riconquistare con prediche di argomento morale il terreno perduto in pubblico. Ma forse le cose stanno in modo molto diverso. Forse, il compito non consiste nel cercare una forma, adeguata ai tempi, per la questione di Dio, “ma nello sperimentare a fondo la questione di Dio in modo da sperimentare la questione su Dio come impedimento all’apparire di Dio come Dio, cioè come Dio di grazia”, come scrisse già alcuni decenni fa il teologo zurighese Walter Mostert, morto precocemente. E forse, proprio in questo, Lutero è sorprendentemente attuale.
La possibilità, oggi, di parlare di Dio non dipende da alcuna domanda su Dio, di qualunque genere essa sia, ma dipende dalla traccia di memoria della rivelazione di Dio attestata nella Bibbia. La questione di Dio non precede la rivelazione, ma viene provocata, e radicalmente trasformata da essa, in maniera appropriata, poiché il soggetto umano della questione di Dio diventa oggetto della questione di Dio riguardo all’essere umano. La questione di Dio riguardo all’essere umano peccatore è la vera questione di Dio e la redenzione dell’essere umano è la risposta a tale questione.
Quando gli esseri umani, nella fede, riconoscono come sono riconosciuti da Dio, la questione di Dio trova la sua risposta sorprendente. D’un tratto, il soggetto che s’interroga su Dio si ritrova egli stesso messo in discussione. Ma non è che la domanda astratta su Dio sia sostituita da una non meno astratta domanda sulla natura dell’essere umano. La domanda di Dio non suona: “che cos’è l’essere umano?”, ma è: “Adamo, dove sei?” (Gen 3, 9).
Non è la cosiddetta questione di Dio, ma è il sapere ascoltare la condizione affinché Dio si riveli a noi. L’essere umano credente è tutto orecchi. “Ascolta, Israele!”: così comincia il nostro testo per la predicazione, lo Shemà. Dio prende la parola in modo irritante, che interrompe in modo salutare l’andamento del mondo e della vita, e che guida verso una direzione nuova, così come accadde a Mosè vicino al roveto ardente. O a Paolo, sulla via di Damasco, quando gli apparve il Cristo risorto e lo apostrofò dicendo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”.
Secondo la tradizione neotestamentaria, Gesù ha citato lo Shemà Israele tutt’uno col comandamento dell’amore del prossimo, tratto da Levitico 19, 18. La richiesta di amare Dio e i consimili come se stessi è detta anche doppio comandamento dell’amore. Continua a sussistere l’errore testardo che il doppio comandamento dell’amore origini da Gesù e che, a differenza di quanto si suppone trovarsi nell’Antico Testamento ebraico, l’amore per Dio sia una scoperta cristiana, come pure l’amore sconfinato per i consimili, che, nell’Antico Testamento e nell’ebraismo, sarebbe riservato agli appartenenti al proprio popolo. Ma, secondo il racconto del Vangelo di Marco (Mc 12, 28-34) Gesù, in tale questione, è del tutto d’accordo con lo scriba che lo interroga su quale sia il comandamento più grande.
Nel Vangelo di Luca, lo scriba non si accontenta della risposta di Gesù e insiste: chi è il mio prossimo? Allora, Gesù narra la parabola del buon samaritano. Fa parte della storia della ricezione di Lc 10, 25-37 che molti cristiani siano convinti che soltanto l’amore per il prossimo e non anche l’amore per Dio definisca l’idea fondante della loro religione. Così, lo Shemà Israel non solo viene separato dall’ebraismo, ma viene anche completamente dissolto nell’ambito etico. E se si rinfaccia all’ebraismo lo stereotipo del legalismo, in verità è un cristianesimo moraleggiante a ridurre al fede nel Dio d’Israele a legge morale; invece, nel Deuteronomio lo Shemà è sì Torah, istruzione, ma, appunto, non è legge che opprime; è vangelo, messaggio di gioia e parola di consolazione, anche nei momenti oscuri della storia e della vita personale.
Nel Sohar, il libro più importante della Cabala ebraica, è scritto: “Se gli esseri umani, nella preghiera, annunciano, con amore e reverenza, l’unità del NOME, allora la tenebra che circonda la terra si squarcia e il volto del Padre Celeste sarà visibile e illuminerà l’universo.”
Ma che cosa vuol dire amare Dio? Anzitutto, significa corrispondere all’amore di questo Dio per noi esseri umani. La parola ebraica “ahab” intende differenti forme di amore. Il profeta Osea ha descritto la relazione di Jahwe con Israele ricorrendo all’immagine dell’amore tra marito e moglie. Nel Deuteronomio, c’è invece l’immagine dell’amore del padre per i figli. Dio ama Israele come se fosse suo figlio. Quindi parlare del padre e del suo amore per i figli non è assolutamente un’idea che origina nel Nuovo Testamento. Ma acquisisce una risonanza nuova per il fatto che è riferito a Gesù come Figlio di Dio. E quindi anche coloro che non appartengono per nascita a Israele diventano figli di Dio per mezzo della fede in Cristo.
La prima epistola di Giovanni chiarisce che non si può amare Dio se si odia il consimile o se non si ha amore per lui. Ma l’amore di Dio non si risolve nell’amore del prossimo, per quanto l’uno sia inscindibile dall’altro. L’amore per Dio consiste in questo: temere e amare Dio sopra ogni cosa e confidare in lui, come ha commentato Lutero il primo comandamento. L’amore per Dio non si limita all’accettazione teorica di una realtà che tutto determina, ma si dimostra nel confidare in tale realtà che tutto determina ogni giorno e con tutta la propria esistenza personale, vivendo la propria vita in questa fiducia. Di ciò fa parte anche la preghiera.
Che cosa significhi lasciare che Dio permei tutta la propria esistenza, lo mostra l’usanza ebraica dei filatteri e della mezza. Come saprete, gli ebrei ortodossi ogni giorno, durante la recita dello Shemà Israele, si legano dei lacci, con delle piccole capsule di preghiera, al braccio sinistro e sulla fronte. Le capsule sulla fronte contengono testi tratti dall’Esodo e dal Deuteronomio. La mezza viene fissata sulla porta di casa e sui portoni e ricorda, a chi entra e a chi esce, che il Dio d’Israele è il vero proprietario e custode della casa e della città. Così, la richiesta che si trova alla fine del nostro testo viene presa alla lettera.
Certo, una tale prasi può anche irrigidirsi nella ritualità, così come anche riti ed usi cristiani possono finire per essere mere convenzioni. I lacci di preghiera ebraici, però, devono ricordare di nuovo ogni giorno, a coloro che li portano, che devono amare Dio con tutta la loro esistenza e confidare in lui e che l’amore per Dio deve attuarsi nell’amore per il prossimo e nell’osservanza dei comandamenti di Dio.
Il fatto che anche noi crisitani dobbiamo temere e amare Dio sopra ogni cosa e confidare in lui e il fatto che l’amore per Dio possa esistere solo in armonia con l’amore per il prossimo, ci è reso visibile dalla Santa Cena che celebreremo adesso. Che possa rafforzarci ad amare, insieme con Israele, Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le nostre forze.
Amen.