Salmo 90
Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età. 2 Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e l’universo, anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.
3 Tu fai ritornare i mortali in polvere, dicendo: «Ritornate, figli degli uomini».
4 Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch’è passato,
come un turno di guardia di notte. 5 Tu li porti via come in una piena;
sono come un sogno. Sono come l’erba che verdeggia la mattina;
6 la mattina essa fiorisce e verdeggia, la sera è falciata e inaridisce.
7 Poiché siamo consumati per la tua ira e siamo atterriti per il tuo sdegno.
8 Tu metti le nostre colpe davanti a te e i nostri peccati nascosti alla luce del tuo volto.
9 Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira; finiamo i nostri anni come un soffio.
10 I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni;
e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via. 11 Chi conosce la forza della tua ira e il tuo sdegno con il timore che t’è dovuto?
12 Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.
13 Ritorna, SIGNORE; fino a quando? Muoviti a pietà dei tuoi servi.
14 Saziaci al mattino della tua grazia, e noi esulteremo, gioiremo tutti i nostri giorni.
Cara Comunità!
Quando una persona è morta, questa notizia ci viene comunicata, di solito, con formule linguistiche specifiche. Quasi mai si legge, in un annuncio funebre, “NN è morto”, ma vi si trovano espressioni come “NN si è addormentato”, “non è più tra noi”, “è tornato alla casa del Padre”, “è dipartito”. Per quanto tali formule suonino antiquate, appaiono necessarie, fino ad oggi, per mitigare, in qualche modo, la durezza e la freddezza della morte. Anche i medici, che devono comunicare spesso delle notizie di morte, non dicono abitualmente, in modo diretto, “Sua madre è morta”; si sente invece qualcosa come “Sua madre non ce l’ha fatta”.
Questo eufemismo include una bella dose di generalizzazione e mancanza di chiarezza, ma sembra che esca dalla bocca dei medici più spesso di un chiaro “Sua madre è morta”.
Ricordo un corso di cura d’anime in situazioni d’emergenza, fatto insieme con poliziotti, medici e pastori. La psicologa fece presente ai medici che la loro espressione favorita era poco chiara. “Non evitate il fatto!”, disse ripetutamente, “Imparate ad esprimere la realtà chiara della morte. Se non lo fate voi, chi altri può farlo?”
Come parliamo della morte, noi della Chiesa? Si spera che lo facciamo in modo degno e rispettoso verso i defunti. Ma lo facciamo anche in modo generalizzato, sminuente e mettendo un velo sulla realtà? Mettiamo il velo delle immagini e metafore religiose di quiete, pace e aldilà, che nel peggiore dei casi sono bugie benintenzionate?
Rifuggiamo anche noi da un vocabolario che, sì, toglie la durezza al primo ascolto, ostacolando in confronto col dolore, ma che, appunto per questo, oscura il nocciolo duro della situazione?
Si può capire tanto o poco di psicologia, ma questo lo sappiamo tutti: se la realtà non viene considerata oggettivamente e accettata, il processo di guarigione non può cominciare; e questo vale anche per il lutto. Se il fatto della morte viene rimosso, evitato o sminuito, non possiamo stare meglio, proprio come quando si infetta una ferita che viene coperta ma non curata.
Si possono muovere molte accuse alla Chiesa di predicare in modo ipocrita, sdolcinato, superficiale; ma il salmo 90, che è per così dire la prima pietra della cultura biblica del lutto, può essere accusato di tutto, ma non di mancanza di realismo!
Il nostro salmo guarda in faccia la morte, senza infingimenti:
Tu li fai morire.
“Tu li porti via come in una piena;
sono come un sogno. Sono come l’erba che verdeggia la mattina; la mattina essa fiorisce e verdeggia, la sera è falciata e inaridisce.“
Qui non c’è nulla che venga velato o mitigato.
Qui non c’è nulla che venga generalizzato e relativizzato, come spesso avviene anche in ambito affatto mondano e assolutamente non religioso, quando si leggono notizie di decessi o riflessioni sulla morte:
“La vita è stata così ricca e bella che non ci si può lamentare della morte”;
“I ricordi restano con noi e questo rende la dipartita meno radicale”;
“Restano le azioni di cui è fatta la vita”.
Il salmo 90 non solo guarda in faccia la realtà della morte, ma usa questo sguardo spoglio anche sulla vita nel suo complesso:
“Finiamo i nostri anni come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via.”
Non conosco parole sulla vita umana che siano più disadorne, umili e spoglie di queste. E qui nessuno dirà che la fede sia un mondo di sogno fatto apposta!
Davanti al diritto e alla natura di Dio, la nostra vita è un alito di vento. Davanti alla sua eternità, è un battito di ciglia. E per quanto riguarda il suo diritto, le azioni della nostra vita possono solo scatenare ira.
Dove ci conduce questo realismo spoglio, senza compromessi del salmo?
Alla depressione? Alla rassegnazione? Tutto è dunque privo di valore e di senso?
Tutto, dunque, è niente? Assolutamente no!
Il salmo 90, che è il concentrato dell’intera esperienza e sapienza d’Israele, e che non per caso viene attribuito a Mosè, va dritto e chiaro in un’altra direzione:
Insegnaci che dobbiamo morire, “Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.”
Questa è la prima conseguenza dell’ammettere la realtà della morte.
“Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.”
Di fronte al potere della morte, non dobbiamo disperare, né smettere di agire, né impigrirci. Dobbiamo diventare saggi!
Dobbiamo riempire in modo sensato i nostri giorni. Dobbiamo curare le nostre relazioni così che siano adatte al tempo della nostra vita. Non dobbiamo porci al di sopra del mondo, ma dobbiamo trovare il nostro posto nel mondo.
Chi conosce la morte non la rimuove né la estromette, ma dà forma, consapevolmente, alla propria vita.
Il tempo della vita è tempo donato. Ed è in quanto donato che dobbiamo accettarlo.
Si può gettare un regalo in un angolo, delusi e scontenti. Si può anche scartarlo piano piano, scoprendolo pezzo dopo pezzo e rallegrarsene sempre. Questo è il punto.
Ma il salmo trae un’altra conseguenza ancora dalla realtà della morte. Non si concentra solo su una consapevole vita terrena. Niente di diverso vogliono anche marxisti e naturalisti.
No; della saggezza che dobbiamo imparare dalla morte fa parte, per il salmo, qualcosa di diverso:
“Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.
Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.”
L’eternità di Dio non solo è stabilita e contrapposta alla natura umana;
l’eternità di Dio diventa rifugio per l’essere umano caduco!
L’assenza di tempo di Dio, qui, non è un mero assioma filosofico, ma la superiorità di Dio sul tempo è “rifugio d’età in età”.
L’essere umano, di fronte alla propria caducità, non deve arrendersi né nascondersi né disperare. Può gettarsi nell’eternità di Dio. Può rifugiarsi nella natura atemporale di Dio. Può tornare lì da dove è venuto: nelle mani del suo Creatore, al cospetto di colui che lo ha voluto e lo vuole.
L’eternità di Dio non è un noioso pensiero teologico.
L’eternità di Dio non è solo futuro illimitato in cui il limitato essere umano, prima o poi, si annoierebbe. L’eternità di Dio è superiorità rispetto alle dimensioni di spazio e tempo.
Perché se Dio ha creato spazio e tempo, allora egli è superiore ad essi; è al di fuori di essi.
E allora per Dio spazio e tempo non significano ciò che significano per noi: invecchiare, avvertire limiti, soffrire penuria, sentire la mancanza di ciò che è passato, non sapere che cosa verrà, sperimentare la perdita.
Dio è al di sopra di spazio e tempo. Questa è l’eternità.
“Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.
Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.”
Vediamo già dalla grammatica che qui sono saltati i limiti temporali che valgono per noi.
“Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.” Dove, invece dell’imperfetto, che si adatterebbe al tempo del congiuntivo trapassato, c’è l’indicativo presente: “sei”.
L’essere di Dio conosce solo il presente. Dove egli è non esistono né passato né futuro, ma c’è solo la pienezza del tempo: un presente in cui è risolto tutto quel che è stato e sarà.
E quest’eternità non ci sta di fronte solo come immagine di contrasto.
Quest’eternità diventa accessibile mediante la relazione con Dio:
Signore, tu sei il nostro rifugio d’età in età. Noi veniamo da te! Noi ci teniamo forte a te.
Due volte il salmo parla di relazione.
Dio dice all’umanità:
«Ritornate, figli degli uomini».
E l’umanità così dice a Dio: “Ritorna, SIGNORE; fino a quando?”.
Per due volte, il salmo usa lo stesso verbo: “ritornare”.
Qui è dove si toccano Dio eterno ed essere umano mortale:
Dio si volge all’essere umano e l’essere umano si volge a Dio.
Non si può esprimere la speranza nell’aldilà in modo più semplice e delicato.
Il Dio d’Israele non è un Dio dei filosofi, che, in caso di necessità, potrebbe sussistere di per sé, nella sua remota superiorità. Il Dio d’Israele è un Dio della relazione: si volge alle sue creature. Anche dall’eternità in giù. Questo è il fondamento della nostra speranza.
Chi ha relazione con Dio ha anche parte alla sua eternità.
Gesù fa il punto così, nel Vangelo di Giovanni:
“Io vivo e voi vivrete” (Gv 14, 19).
Dio non tiene per sé la sua vita eterna.
La condivide con coloro che si legano a lui.
Chi ha a che fare con Dio ha a che fare con l’eternità.
E chi si tiene forte a Gesù ha gettato l’ancora, già adesso, nell’eternità.
Qualunque cosa accada in futuro, questa relazione regge e sostiene.
O, per dirla con le parole del salmo 90:
“tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.”
“O eternità, parola tonante, / o spada che penetra nell’anima,/
o inizio senza fine! O eternità, tempo senza tempo, /
non conosco gran tristezza, / dove mi volgo. /
Accoglimi quando ti piace, / Signore Gesù, nella tenda della tua gioia!”
Questo cantava la Chiesa luterana, con le parole di Johann Rist (1642).
Questo compose Johann Sebastian Bach, nel 1723, la sua cantata per la fine dell’anno ecclesiastico.
Questo Oskar Kokoschka, nel 1914, dipinse la sua serie di 11 quadri.
Eppure noi ci siamo ridotti a parlare a bassa voce del tema dell’eternità. Ma perché?
Tra le formule con cui, tradizionalmente si comunicano le notizie di decessi, c’è questa:
“NN è stato chiamato all’eternità.”
Sì, è antiquata. Sì, è eufemistica e consolatoria.
Ma è giusta e centra il bersaglio!
Chi muore nella fede si trasferisce nella sfera di Dio.
Chi muore nella fede non solo termina la sua vita biologica limitata da spazio e tempo, ma ritorna nell’eternità di Dio; trova rifugio presso colui che è già da prima del tempo e che è anche dopo ogni tempo. Quest’eternità non è un luogo freddo, estraneo. L’eternità è il luogo in cui noi siamo stati pensati prima ancora che i nostri genitori pensassero a noi.
Presso Dio ci sono rifugio, protezione, casa.
Lì, veniamo conosciuti pienamente (I Cor 13,12).
E anche noi conosceremo qualcosa di colui che era e che sarà.
Ma soprattutto conosceremo ciò che sempre vale e resta costante:
“Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.”
Amen.Salmo 90
Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età. 2 Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e l’universo, anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.
3 Tu fai ritornare i mortali in polvere, dicendo: «Ritornate, figli degli uomini».
4 Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch’è passato,
come un turno di guardia di notte. 5 Tu li porti via come in una piena;
sono come un sogno. Sono come l’erba che verdeggia la mattina;
6 la mattina essa fiorisce e verdeggia, la sera è falciata e inaridisce.
7 Poiché siamo consumati per la tua ira e siamo atterriti per il tuo sdegno.
8 Tu metti le nostre colpe davanti a te e i nostri peccati nascosti alla luce del tuo volto.
9 Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira; finiamo i nostri anni come un soffio.
10 I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni;
e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via. 11 Chi conosce la forza della tua ira e il tuo sdegno con il timore che t’è dovuto?
12 Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.
13 Ritorna, SIGNORE; fino a quando? Muoviti a pietà dei tuoi servi.
14 Saziaci al mattino della tua grazia, e noi esulteremo, gioiremo tutti i nostri giorni.
Cara Comunità!
Quando una persona è morta, questa notizia ci viene comunicata, di solito, con formule linguistiche specifiche. Quasi mai si legge, in un annuncio funebre, “NN è morto”, ma vi si trovano espressioni come “NN si è addormentato”, “non è più tra noi”, “è tornato alla casa del Padre”, “è dipartito”. Per quanto tali formule suonino antiquate, appaiono necessarie, fino ad oggi, per mitigare, in qualche modo, la durezza e la freddezza della morte. Anche i medici, che devono comunicare spesso delle notizie di morte, non dicono abitualmente, in modo diretto, “Sua madre è morta”; si sente invece qualcosa come “Sua madre non ce l’ha fatta”.
Questo eufemismo include una bella dose di generalizzazione e mancanza di chiarezza, ma sembra che esca dalla bocca dei medici più spesso di un chiaro “Sua madre è morta”.
Ricordo un corso di cura d’anime in situazioni d’emergenza, fatto insieme con poliziotti, medici e pastori. La psicologa fece presente ai medici che la loro espressione favorita era poco chiara. “Non evitate il fatto!”, disse ripetutamente, “Imparate ad esprimere la realtà chiara della morte. Se non lo fate voi, chi altri può farlo?”
Come parliamo della morte, noi della Chiesa? Si spera che lo facciamo in modo degno e rispettoso verso i defunti. Ma lo facciamo anche in modo generalizzato, sminuente e mettendo un velo sulla realtà? Mettiamo il velo delle immagini e metafore religiose di quiete, pace e aldilà, che nel peggiore dei casi sono bugie benintenzionate?
Rifuggiamo anche noi da un vocabolario che, sì, toglie la durezza al primo ascolto, ostacolando in confronto col dolore, ma che, appunto per questo, oscura il nocciolo duro della situazione?
Si può capire tanto o poco di psicologia, ma questo lo sappiamo tutti: se la realtà non viene considerata oggettivamente e accettata, il processo di guarigione non può cominciare; e questo vale anche per il lutto. Se il fatto della morte viene rimosso, evitato o sminuito, non possiamo stare meglio, proprio come quando si infetta una ferita che viene coperta ma non curata.
Si possono muovere molte accuse alla Chiesa di predicare in modo ipocrita, sdolcinato, superficiale; ma il salmo 90, che è per così dire la prima pietra della cultura biblica del lutto, può essere accusato di tutto, ma non di mancanza di realismo!
Il nostro salmo guarda in faccia la morte, senza infingimenti:
Tu li fai morire.
“Tu li porti via come in una piena;
sono come un sogno. Sono come l’erba che verdeggia la mattina; la mattina essa fiorisce e verdeggia, la sera è falciata e inaridisce.“
Qui non c’è nulla che venga velato o mitigato.
Qui non c’è nulla che venga generalizzato e relativizzato, come spesso avviene anche in ambito affatto mondano e assolutamente non religioso, quando si leggono notizie di decessi o riflessioni sulla morte:
“La vita è stata così ricca e bella che non ci si può lamentare della morte”;
“I ricordi restano con noi e questo rende la dipartita meno radicale”;
“Restano le azioni di cui è fatta la vita”.
Il salmo 90 non solo guarda in faccia la realtà della morte, ma usa questo sguardo spoglio anche sulla vita nel suo complesso:
“Finiamo i nostri anni come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via.”
Non conosco parole sulla vita umana che siano più disadorne, umili e spoglie di queste. E qui nessuno dirà che la fede sia un mondo di sogno fatto apposta!
Davanti al diritto e alla natura di Dio, la nostra vita è un alito di vento. Davanti alla sua eternità, è un battito di ciglia. E per quanto riguarda il suo diritto, le azioni della nostra vita possono solo scatenare ira.
Dove ci conduce questo realismo spoglio, senza compromessi del salmo?
Alla depressione? Alla rassegnazione? Tutto è dunque privo di valore e di senso?
Tutto, dunque, è niente? Assolutamente no!
Il salmo 90, che è il concentrato dell’intera esperienza e sapienza d’Israele, e che non per caso viene attribuito a Mosè, va dritto e chiaro in un’altra direzione:
Insegnaci che dobbiamo morire, “Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.”
Questa è la prima conseguenza dell’ammettere la realtà della morte.
“Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.”
Di fronte al potere della morte, non dobbiamo disperare, né smettere di agire, né impigrirci. Dobbiamo diventare saggi!
Dobbiamo riempire in modo sensato i nostri giorni. Dobbiamo curare le nostre relazioni così che siano adatte al tempo della nostra vita. Non dobbiamo porci al di sopra del mondo, ma dobbiamo trovare il nostro posto nel mondo.
Chi conosce la morte non la rimuove né la estromette, ma dà forma, consapevolmente, alla propria vita.
Il tempo della vita è tempo donato. Ed è in quanto donato che dobbiamo accettarlo.
Si può gettare un regalo in un angolo, delusi e scontenti. Si può anche scartarlo piano piano, scoprendolo pezzo dopo pezzo e rallegrarsene sempre. Questo è il punto.
Ma il salmo trae un’altra conseguenza ancora dalla realtà della morte. Non si concentra solo su una consapevole vita terrena. Niente di diverso vogliono anche marxisti e naturalisti.
No; della saggezza che dobbiamo imparare dalla morte fa parte, per il salmo, qualcosa di diverso:
“Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.
Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.”
L’eternità di Dio non solo è stabilita e contrapposta alla natura umana;
l’eternità di Dio diventa rifugio per l’essere umano caduco!
L’assenza di tempo di Dio, qui, non è un mero assioma filosofico, ma la superiorità di Dio sul tempo è “rifugio d’età in età”.
L’essere umano, di fronte alla propria caducità, non deve arrendersi né nascondersi né disperare. Può gettarsi nell’eternità di Dio. Può rifugiarsi nella natura atemporale di Dio. Può tornare lì da dove è venuto: nelle mani del suo Creatore, al cospetto di colui che lo ha voluto e lo vuole.
L’eternità di Dio non è un noioso pensiero teologico.
L’eternità di Dio non è solo futuro illimitato in cui il limitato essere umano, prima o poi, si annoierebbe. L’eternità di Dio è superiorità rispetto alle dimensioni di spazio e tempo.
Perché se Dio ha creato spazio e tempo, allora egli è superiore ad essi; è al di fuori di essi.
E allora per Dio spazio e tempo non significano ciò che significano per noi: invecchiare, avvertire limiti, soffrire penuria, sentire la mancanza di ciò che è passato, non sapere che cosa verrà, sperimentare la perdita.
Dio è al di sopra di spazio e tempo. Questa è l’eternità.
“Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.
Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.”
Vediamo già dalla grammatica che qui sono saltati i limiti temporali che valgono per noi.
“Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e l’universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.” Dove, invece dell’imperfetto, che si adatterebbe al tempo del congiuntivo trapassato, c’è l’indicativo presente: “sei”.
L’essere di Dio conosce solo il presente. Dove egli è non esistono né passato né futuro, ma c’è solo la pienezza del tempo: un presente in cui è risolto tutto quel che è stato e sarà.
E quest’eternità non ci sta di fronte solo come immagine di contrasto.
Quest’eternità diventa accessibile mediante la relazione con Dio:
Signore, tu sei il nostro rifugio d’età in età. Noi veniamo da te! Noi ci teniamo forte a te.
Due volte il salmo parla di relazione.
Dio dice all’umanità:
«Ritornate, figli degli uomini».
E l’umanità così dice a Dio: “Ritorna, SIGNORE; fino a quando?”.
Per due volte, il salmo usa lo stesso verbo: “ritornare”.
Qui è dove si toccano Dio eterno ed essere umano mortale:
Dio si volge all’essere umano e l’essere umano si volge a Dio.
Non si può esprimere la speranza nell’aldilà in modo più semplice e delicato.
Il Dio d’Israele non è un Dio dei filosofi, che, in caso di necessità, potrebbe sussistere di per sé, nella sua remota superiorità. Il Dio d’Israele è un Dio della relazione: si volge alle sue creature. Anche dall’eternità in giù. Questo è il fondamento della nostra speranza.
Chi ha relazione con Dio ha anche parte alla sua eternità.
Gesù fa il punto così, nel Vangelo di Giovanni:
“Io vivo e voi vivrete” (Gv 14, 19).
Dio non tiene per sé la sua vita eterna.
La condivide con coloro che si legano a lui.
Chi ha a che fare con Dio ha a che fare con l’eternità.
E chi si tiene forte a Gesù ha gettato l’ancora, già adesso, nell’eternità.
Qualunque cosa accada in futuro, questa relazione regge e sostiene.
O, per dirla con le parole del salmo 90:
“tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.”
“O eternità, parola tonante, / o spada che penetra nell’anima,/
o inizio senza fine! O eternità, tempo senza tempo, /
non conosco gran tristezza, / dove mi volgo. /
Accoglimi quando ti piace, / Signore Gesù, nella tenda della tua gioia!”
Questo cantava la Chiesa luterana, con le parole di Johann Rist (1642).
Questo compose Johann Sebastian Bach, nel 1723, la sua cantata per la fine dell’anno ecclesiastico.
Questo Oskar Kokoschka, nel 1914, dipinse la sua serie di 11 quadri.
Eppure noi ci siamo ridotti a parlare a bassa voce del tema dell’eternità. Ma perché?
Tra le formule con cui, tradizionalmente si comunicano le notizie di decessi, c’è questa:
“NN è stato chiamato all’eternità.”
Sì, è antiquata. Sì, è eufemistica e consolatoria.
Ma è giusta e centra il bersaglio!
Chi muore nella fede si trasferisce nella sfera di Dio.
Chi muore nella fede non solo termina la sua vita biologica limitata da spazio e tempo, ma ritorna nell’eternità di Dio; trova rifugio presso colui che è già da prima del tempo e che è anche dopo ogni tempo. Quest’eternità non è un luogo freddo, estraneo. L’eternità è il luogo in cui noi siamo stati pensati prima ancora che i nostri genitori pensassero a noi.
Presso Dio ci sono rifugio, protezione, casa.
Lì, veniamo conosciuti pienamente (I Cor 13,12).
E anche noi conosceremo qualcosa di colui che era e che sarà.
Ma soprattutto conosceremo ciò che sempre vale e resta costante:
“Signore, tu sei stato per noi un rifugio d’età in età.”
Amen.