Romani 15, 4–13
Cara Comunità,
è da un Paese diviso che quest’anno vengo da voi. Sembra che non ci sia più un’idea condivisa circa la via verso il futuro della Germania. Da una parte, ci sono paura dello straniero e voglia di sigillare la Germania quanto più possibile e di respingere gli immigrati. La politica migratoria è considerata causa di ogni male. D’altra parte, c’è una corrente iper-corretta, in neotedesco “woke”, che vede ovunque colonialismo e razzismo, che manifesta per la Palestina e contro Israele e per la quale i massicci cambiamenti degli ultimi decenni non sono più sufficienti. Quanto la nostra quotidianità sia cambiata si è visto, la settimana scorsa, nel documentario per il 60° compleanno di Hape Kerkeling. Ottant’anni, un tempo lunghissimo. Un altro secolo!
Ma come si può superare il fossato attuale tra “wokeness” da una parte e scetticismo riguardo il fenomeno delle migrazioni dall’altra? Ci sono comunanze, in questa tensione che, spesso, si avverte fisicamente? C’è unità, nonostante i fossati?
Cara Comunità, l’apostolo Paolo, più o meno nell’anno 55, scrive a una comunità divisa a Roma. Il fossato corre, per quanto si può capire, tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani. Gli uni vivono in modo nuovo delle promesse, della Torah e dei profesti e si entusiasmano per Cristo, riconciliazione vivente di Dio con l’umanità. Dio ha prestabilito Gesù come sacrificio, dice Romani 3, 25, in modo pienamente ebraico. I pagano-cristiani, invece, vedono Gesù come Redentore di tutti gli esseri umani, che non ha più molto da spartire con l’ebraismo. Per loro, Gesù è la fine della Legge, la fine della Torah ebraica e così Paolo dice in Romani 10, 4. Come si può superare il fossato? C’è una fede comune, nonostante tutte le differenze?
Paolo vuole andare a Roma e da lì in Spagna. Non conosce la comunità di Roma; perciò scrive la Lettera ai Romani. Ci mette tutta la sua teologia. E scrive la migliore opera di teologia di tutta la Bibbia. Spesso, è dura da masticare. Ma nutre la Chiesa da 1970 anni. La Lettera ai Romani è senza fondo. Bisogna avvicinarlesi sempre col batticuore e con la mente fredda per capirne un po’ e per intendere meglio la propria fede in Dio.
Ascoltiamo il testo prescritto per la predicazione odierna, tratto dal capitolo 15. Paolo si avvia lentamente a concludere la lettera e qui affronta il punto decisivo: consigli riguardo il comportamento, moniti, appello all’unità rivolto a una comunità viva, ma lacerata.
4 Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché, mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza.
5 Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, 6 affinché di un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo. 7 Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio.
8 Infatti io dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri; 9 mentre gli stranieri onorano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti celebrerò tra le nazioni / e canterò le lodi al tuo nome».
10 E ancora: «Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo».
11 E altrove: «Nazioni, lodate tutte il Signore; / tutti i popoli lo celebrino».
12 Di nuovo Isaia dice:«Spunterà la radice di Iesse, / colui che sorgerà a governare le nazioni; / in lui spereranno le nazioni».
13 Or il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.
C’è una virtù cristiana che Paolo evidenzia con forza, in questo passo: la speranza che, secondo I Cor 13, va affiancata alla fede e all’amore. Anche la Lettera agli Ebrei, in 11,1, descrive bene il rapporto tra fede e speranza: “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono.”
I C’è una prima breve frase, con cui riassumo il testo della predicazione, che suona: la fede è speranza, la speranza sostiene sugli abissi; ma non deve essere fondata. Ho iniziato questa predica osservando che, quest’anno, vengo da un paese diviso. L’aspetto peggiore di questa situazione è che sembra non esserci più una speranza comune. Al contrario, si concorda piuttosto sulla valutazione che la situazione sia senza speranza. “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”: sono le parole poste all’ingresso dell’Inferno nella “Divina Commedia” di Dante. Viviamo già nell’anticamera dell’inferno?
Paolo, invece, evidenzia con forza la speranza. La speranza è un segno distintivo essenziale di ogni fede; la fede significa sperare perché non si deve sperare in ciò che si ha già, a meno che si speri che rimanga così com’è. Ma che si speri nel futuro, che non si ha ancora in mano, significa che speriamo in ciò che non abbiamo; e allora possiamo sperare solo se crediamo che ci sia qualcosa da sperare.
Paolo, qui, parla di “consolazione della Scrittura” come del fondamento della speranza e fa molte citazioni veterotestamentarie, che si riferiscono a entrambi i gruppi presenti a Roma: agli ebrei, di cui Cristo è diventato servitore, e ai pagani, che si possono rallegrare insieme con il popolo ebraico. La fede, infatti, non consiste nel possedere e nel trionfare; la fede è sperare. Già nel capitolo 8 Paolo aveva scritto, in proposito: “la speranza di ciò che si vede non è speranza” (8, 24). La speranza si lega saldamente a ciò che non è ancora qui, che è promesso e che può ancora essere.
II La mia seconda frase riassuntiva è questa: la speranza ha bisogno di unità. Sperare è qualcosa che si può fare solo insieme con altri. Non si può sperare contro qualcuno. Questa si potrebbe chiamarla Schadenfreude, gioia per il male che capita ad altri. Anch’essa, talvolta, è consentita per purificare la propria anima quando a uno è stato fatto del male. Ma la Schadenfreude non porta lontanto, non è utile, né è edificate anche per gli altri. La speranza ha bisogno che ci siano unità e che si pensi agli altri.
Circa a metà del testo si trova il bel versetto 7, molto usato per le nozze: “Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio.” Gli sposi trovano solo insieme la speranza, accogliendosi a vicenda così come si è; e questo significa, sempre, che l’altro non è perfettamente come avremmo desiderato che fosse. Accogliere non è riferito a ciò che si desiderava, che resta un ideale. Accogliere è riferito a ciò che è reale, che non è perfetto, che è come è.
E ciò vale anche per altri gruppi: per le due correnti della comunità di Roma, ai tempi di Paolo, e allo stesso modo per noi e per i “woke” e per gli incerti, oggi. Non ci si deve fare un’immagine negativa dell’altro, che poi cammina da sola e alla fine può condurre all’odio. E l’odio ha la caratteristica fatale di confermarsi e rafforzarsi da sé.
Nella settimana scorsa, ho letto due osservazioni circa l’ostilità e l’odio, che, a prima vista, sembrano contraddirsi. La prima è dello scrittore israeliano David Grossman, che una settimana fa esatta ha ricevuto ad Amburgo il Premio Marion Dönhoff. Grossman, che ha perso un figlio in guerra, dice: “l’ostilità è sfiancante.” L’ostilità snerva dall’interno. Non solo deforma l’altro, ma anche se stessi e allontana la persona da tutto ciò che è buono. La seconda osservazione è dello psichiatra heidelberghese Thomas Fuchs, che dice: “l’odio è il sentimento più vitale”. L’odio fa produrre l’ormone della soddisfazione. Il mondo è brutto, ma io sto dalla parte giusta e colpirò con forza fin quando l’altro si arrenderà.
Perché queste due affermazioni non si contraddicono? Penso che odio e ostilità possano agire come droghe, ma che abbiano anche i medesimi effetti collaterali. Vitalizzano per un momento, ma alla lunga indeboliscono. L’odio non è solo immorale, ma anche dannoso per la salute. Sfianca e rovina il cuore. Perciò Paolo dice: accoglietevi. La speranza ha bisogno di unità.
III A questo riguardo, ecco la mia terza frase riassuntiva: l’unità ha bisogno di diversità. Il terrorismo delle idee non è unità, ma è il tentativo di una minoranza di determinare tutto. Ciò non ha senso né in una comunità cristiana né in politica. La nostra Chiesa sorella cattolica lotta proprio con questo problema: riformisti e tradizionalisti non sperano più insieme, ma gli uni contro gli altri. Il film “Conclave”, attualmente nei cinema, con Ralph Fiennes nel ruolo del Cardinal Decano, lo ha ben espresso in una scena. L’uniformità distrugge ogni vita, anche quella della fede. Perciò accoglietevi. Se non amate ciò che è diverso, abbiate riguardo per esso e apprezzatelo come impostazione.
IV E infine la quarta frase, con cui riassumo Romani 11: fede, speranza e unità hanno bisogno della lode. Accoglietevi gli uni gli altri: “gloria di Dio”, scrive Paolo.
La priorità della lode riguarda la nostra vita di relazione e il nostro rapporto con Dio. Tra di noi, la lode è la moneta più preziosa. Senza la lode, i bambini non possono diventare grandi e gli adulti non aspirano a niente come alla lode. Anche chiedere un aumento dello stipendio o dell’onorario è soprattutto un grido che chiede lode e riconoscimento.
Ma chi loda gli altri diventa sempre un po’ più libero da se stesso. La lode rallegra; la lode libera. La lode di Dio, però, relativizza gli obblighi terreni. Chi loda, acquista padronanza e indebolisce la corazza dell’autoreferenzialità che ci circonda. Applicato alla politica, questo significa che la lode di Dio è, al tempo stesso, protesta sovversiva contro i potenti che si aspettano o pretendo lodi adulatorie dai loro sottoposti.
Per la comunità di Roma, Paolo ha una richiesta riassuntiva. I versetti 5 e 6 recitano: “Dio […] vi conceda di avere tra di voi un medesimo sentimento […] affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Dio”. Questa è una buona frase fondamentale, non solo per l’antica comunità di Roma. “Sia lode al mio Dio, ricco di consigli, di azione, di grazia.”
Amen.