Salmo 16

 

Cara Comunità,

 

il testo per la predicazione di oggi, XVI Domenica dopo Trinitatis, è costituito dal salmo 16, preghiera cui in letteratura si riconosce una bellezza speciale. Lo leggo:

 

1 Proteggimi, o Dio, perché io confido in te.
2 Ho detto a Dio: «Tu sei il mio Signore;
non ho bene alcuno all’infuori di te».
3 Quanto ai santi che sono sulla terra,
essi sono la gente onorata in cui ripongo tutto il mio affetto.
4 I dolori di quelli che corrono dietro ad altri dèi saran moltiplicati;
io non offrirò le loro libazioni di sangue,
né le mie labbra proferiranno i loro nomi.
5 Il SIGNORE è la mia parte di eredità e il mio calice;
tu sostieni quel che mi è toccato in sorte.
6 La sorte mi ha assegnato luoghi deliziosi;
una bella eredità mi è toccata!
7 Benedirò il SIGNORE che mi consiglia;
anche il mio cuore mi istruisce di notte.
8 Io ho sempre posto il SIGNORE davanti agli occhi miei;
poich’egli è alla mia destra, io non sarò affatto smosso.
9 Perciò il mio cuore si rallegra,
l’anima mia esulta;
anche la mia carne dimorerà al sicuro;
10 poiché tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte,
né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione.
11 Tu m’insegni la via della vita;
ci sono gioie a sazietà in tua presenza;
alla tua destra vi sono delizie in eterno.

 

La preghiera del salmo esprime una profonda fiducia in Dio, che, nella sua radicalità, sembra quasi irreale; fiducia in Dio non legata a un’occasione particolare; atteggiamento verso Dio che appare incrollabile. In questa fiducia profonda c’è il parallelismo col salmo 23, che molti di noi conoscono a memoria. Diversamente dal salmo 16, il 23 sviluppa un programma in immagini ricco e invitante. Vi si parla di verdi pascoli, di acque fresche, di una verga e un bastone che proteggono e di una mensa imbandita. Con queste belle immagini, il salmo 23 è in grado di accompagnare nei giorni buoni e in quelli cattivi. Il salmo 16, invece, suona più severo, più astratto. Non vi si trovano immagini accattivanti; sì, vi si parla delle mani di Dio che sostengono la sorte umana e dei luoghi deliziosi che preparano. Questo forse spiega perché il salmo 16 non sia, nella spiritualità cristiana, tanto rilevante quanto il salmo 23. Lutero, nella sua traduzione, sottolineò il carattere meditativo di questo salmo, scrivendo: “non conosco altro bene che te.” Qui vale la pena dare uno sguardo ad altre traduzioni. Nella traduzione dell’unità, è detto “il mio Signore sei tu, tu solo la mia fortuna.” E, similmente, la traduzione di Zurigo dice: “Tu sei il Signore, la mia felicità è solo presso di te.” La parola “fortuna” dà al salmo tutto un altro suono.

 

Entrambe le traduzioni dell’ebraico ט֝וֹבָתִ֗י (Tobati) sono giuste. Il bene e la felicità appartengono al pensiero biblico e alla teologia cristiana e interagiscono l’uno con l’altro. Il sommo bene, per il pensiero cristiano, è Dio; solo in lui il cuore, e quindi tutti gli sforzi per conquistare la felicità, trovano appagamento. Così dice, in modo molto suggestivo, Agostino. Eppure, il discorso sul bene e sulla felicità produce associazioni di idee e suscita sentimenti affatto diversi. Bisogna sforzarsi di conseguire il bene, certo, si deve. Al tempo stesso, ciò non è privo d’inconvenienti. Perché, in molti casi, non sappiamo con certezza che cosa sia bene per noi e per gli altri oppure pensiamo di saperlo per poi, guardando a ritroso, dover constatare di esserci sbagliati. È così nell’ambito individuale, privato ed è così anche a livello sociale e nell’ambito politico. Una seconda aporia, riguardo al bene, è messa a nudo da Paolo, nella Lettera ai Romani, quando scrive: “poiché in me si trova il volere, ma il modo di compiere il bene, no. Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio.” (Rm 7,18b.19). Quest’idea costituisce il punto di partenza della concezione del peccato secondo il pensiero della Riforma e in particolare quello luterano. Il peccato non consiste solo nella trasgressione dei comandamenti divini, ma definisce un viluppo in noi stessi. E ciò si mostra, tra l’altro, se non facciamo ciò che sappiamo di dover fare e che, in effetti, vogliamo anche fare. Quest’esperienza si ritrova correntemente nella vita quotidiana: nelle piccole cose, con cui non facciamo male agli altri, ma anche in atteggiamenti e azioni con cui danneggiamo gli altri o facciamo loro del male. Per esempio, quando non possiamo più avere fiducia in qualcuno o possiamo corrispondere all’affetto di qualcuno, benché lo vogliamo. Il nostro sforzo verso il bene non è privo d’inconvenienti ed è legato a resistenze e fatica.

 

Le cose vanno in modo affatto differente con la felicità. La felicità è immediatamente degna di sforzi. Non dobbiamo riflettere per decidere se vogliamo essere felici. La felicità va di pari passo con gioia e allegrezza; essere felici è una bella sensazione. Godiamo della felicità, quando ci viene impartita. La felicità si vorrebbe non lasciarla andar via. È vero, ci sono molte vite in cui la felicità trova posto solo di rado e in cui prevalgono delusione e crucci. Talvolta, s’incontrano anche persone che si dimostrano particolarmente scontente e che non vogliono parlare di felicità per sé. Ma queste eccezioni confermano, a modo loro, che lo sforzo che tende alla felicità, da parte dell’essere umano, è naturale, anche se viene represso. Senza la speranza nella felicità, non si può nemmeno perseguire il bene con energia. Ciò lo ha fatto valere, non per ultimo, nella sua filosofia morale, Immanuel Kant, di cui quest’anno si celebra il 3° centenario della nascita. Kant, pur con tutto il suo rigore, era realistico: aspettarsi la pura moralità da parte dell’essere umano, senza la speranza nella felicità, senza l’appagamento dell’anelito umano alla beatitudine, non è realistico. Kant, pertanto, ha posto Dio quale garante del fatto che l’essere umano buono, alla fine, sia anche felice.

 

Quando l’orante del salmo 16 parla di Dio come sua unica sorte, felicità, pensa a Dio non solo come garante della ricompensa per la moralità. Pensa a Dio come fondamento della felicità, della sorte nella vita in tutti i suoi momenti. La preghiera è nata nel periodo postesilico, quando Israele, che aveva dovuto lasciare al Terra Promessa, poté sentire il ritorno in essa come grande felicità. Ma l’esilio ha trasformato la speranza d’Israele. Alla speranza nella vita buona nell’aldiquà si è sostituita la speranza in un aldilà migliore, un aldilà che liberasse il popolo di Dio dal ciclo che aveva dovuto subire nel corso dei secoli. L’esperienza secolare era stata che il comandamento e l‘attenzione amorevole di Dio erano sempre di nuovo seguiti da disubbidienza e malanno e castigo. Di nuovo, Dio si pentiva e creava la possibilità di un nuovo inizio. Nell’esilio, fu chiaro che la redenzione da questo ciclo non è possibile nelle condizioni dell’aldiquà. La redenzione deve condurre oltre le sempre nuove separazioni da Dio e le amare conseguenze per la vita. La vera redenzione deve annullare la possibilità di separarci sempre di nuovo da Dio e di sperimentare sempre di nuovo le conseguenze di tale divisione, in forma di guerra e di espulsione. La vera redenzione c’è solo se si può restare nell’amabile terra di Dio, senza dover temere di esserne espulsi.

 

Dove c’è questa speranza, la vita non consiste più solo di singoli momenti di felicità, ma ha una prospettiva nuova: la beatitudine. Questa speranza compare nel salmo 16. La beatitudine (beatitudo) contiene la promessa che la vita umana giunga a compimento, a coincidere con ciò che l’essere umano sarà. La speranza in questo avvolge la vita dell’orante del salmo 16. Poiché confida che Dio non abbandonerà la sua anima alla morte. L’orante spera che Dio non lo faccia finire nel sepolcro, nella lontananza da Dio e che vinca la morte e gli doni la pienezza di vita. Allora si capisce perché il salmo 16, nella liturgia cattolica romana, venga letto durante la notte di Pasqua. Le pericopi evangeliche, invece, lo prescrivono per il periodo dopo Trinitatis: estate, tempo del raccolto, in cui la luminosità e il calore sostengono la fiducia della fede cui il salmo introduce. Entrambi i luoghi dell’anno ecclesiastico sono giusti per il salmo, tanto la notte di Pasqua quanto il periodo di Trinitatis. In precedenza, ho già accennato alle differenze di traduzione; ora ho accennato alle differenze nell’agenda liturgica. Solo nel movimento ecumenico del Novecento le Chiese hanno imparato quanto possano arricchire la considerazione di tali differenze e la molteplicità della prassi della fede.

 

Come si possa immaginare di superare i limiti della morte, è cosa che il salmo lascia irrisolta. Ma il salmo indica la via in una direzione determinata, quando l’orante dice: “Perciò il mio cuore si rallegra, l’anima mia esulta; anche la mia carne dimorerà al sicuro”. Distingue tra corpo e anima, ma il corpo fa parte inscindibile della sua vita. La sua speranza che Dio non lo abbandoni al sepolcro non vale solo per la sua anima. La speranza nella resurrezione corporale risuona in pochi passi dell’Antico Testamento. Nella predicazione di Gesù, viene rafforzata. Come abbiamo ascoltato dalla lettura del Vangelo, Gesù consola la vedova di Nain, cui è morto l’unico figlio, e lo fa facendo tornare in vita il figlio. Con i racconti di resurrezioni, i Vangeli non vogliono solo mostrare la forza creatrice di Gesù, che va oltre le forze umane, ma mostrano anche che la speranza coinvolge il corpo oltre la morte.

Allo stesso modo, queste azioni simboliche di Gesù vanno distinte dalla sua Resurrezione per mezzo di Dio. Perché Gesù viene ridestato a vita nuova che non ha più la morte davanti a sé. La Resurrezione di Gesù non è ritorno in questa vita, ma è l’inizio di una vita nuova, di genere nuovo. Questa speranza è sconosciuta al salmo 16.

 

Ma nel salmo 16 è chiaro che la fiducia in Dio non può finire ai confini con la morte. All’inizio del salmo, l’orante porta a Dio una richiesta, l’unica richiesta del salmo: “Proteggimi”. Quel che segue è la piena espressione della fiducia. Questa fiducia omnicomprensiva, espressa dall’orane, da una parte desta ammirazione e può essere contagiosa. Ma, a fronte della tanta sofferenza che constatiamo nel mondo, in forma di guerra, oppressione, ingiustizia, non ci si può esimere dal questionare come possa essere possibile una tale fiducia ininterrotta. Come può Dio permettere sofferenza e male? Questa domanda non compare nel nostro salmo. Ma come facciamo a sapere che l’orante non la ponga e che non stia questionando o abbia questionato con Dio? Forse, la sua fiducia, che egli esprime nella preghiera, non è così incrollabile. Forse, la sua preghiera non è solo risposta a bene sperimentato, ma è anche acclamazione e un legare Dio alla sua responsabilità affinché, come Creatore, protegga la vita. Perché da chi altri ci si dovrebbe altrimenti attendere la protezione della vita oltre la morte, se non da Dio? La preghiera non dice solo: confido in te, Dio; ma dice, anche: Dio, se tu sei Dio, allora mi proteggerai. Letta così, è un’unica richiesta colma di fiducia; richiesta che, appunto, si può rivolgere solo a Dio; richiesta che estrapola la buona esperienza con Dio e lega Dio alla sua bontà.

 

Dietrich Bonhoeffer ha descritto i salmi come libro di preghiere della Bibbia, che ci prende per mano e ci porta a parlare con Dio. Ha interpretato questo libro di preghiere a partire da Cristo. Cristo, nel Padre nostro, ci porta nella sua preghiera. Bonhoeffer scrive: “Se egli (Gesù) ci prende nella sua preghiera; se possiamo pregare insieme la sua preghiera; se ci prende con sé conducendoci sul suo cammino, in alto, a Dio e ci insegna a pregare, allora siamo liberati dal tormento della mancanza di preghiera.” Possiamo, anzi, dobbiamo andare con Gesù nella preghiera con Dio. A questo possono servire anche i salmi. La preghiera è, per Bonhoeffer, dote, dono, ma anche compito. Possiamo e dobbiamo pregare. Nella preghiera, non si articolano solo ringraziamento e richiesta; nella preghiera si acquisisce anche fiducia e si vive la comunione con Dio. Con la preghiera, facciamo qualcosa per la nostra comunione con Dio. Come si concilia ciò con l’idea fondamentale della Riforma che noi non possiamo fare nulla per la nostra salvezza, anzi, che non dobbiamo fare nulla? Di tale questione ci siamo occupati, tra l’altro, nel corso estivo del Centro Melantone. Come vada compresa la grazia di Dio e quale ruolo abbia l’essere umano nel venire in essere della salvezza: su tale questione, al tempo della Riforma, ci fu la spaccatura tra Chiesa romana e Chiese della Riforma. Su tale questione le Chiese hanno trovato una nuova comunione, nel 1999, con la Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione. Quest’anno, ricorre il 25° anniversario di questa Dichiarazione. È stato vantaggioso, per le Chiese evangeliche, nell’ambito di tale dichiarazione, riflettere in modo nuovo sul ruolo delle opere umane. È giusto che non possiamo meritarci la salvezza, perché Dio ce la dona. Ma non vuol dire che non possiamo fare nulla per la nostra prassi devozionale. Possiamo prenderci del tempo per pregare e per andare al culto e per esercitarci nella fede e farlo con i salmi e con altri testi biblici. Che possiamo pregare Dio è un dono. Ma questo dono vuole anche essere usato. Per esempio, pregando con i salmi.

Amen.

XVI Domenica dopo Trinitatis – Prof. Dr. Nuessel